Iosif Brodskij: Poesie 1972 – 1985

Immagine
Wassily Kandinsky – Yellow-Red-Blue (1925)

“Strani incendi scoppiano intorno a Mosca nella primavera del 1972. Iosif Brodskij lascia dietro a sé odore di bruciato.  Lascia dietro a sé un Impero; l’albero della propria vita totalmente schiantato dal fulmine della Storia: tronco, frutto, radici (donna-figlio-genitori); le ceneri di Blok (e dell’Achmatova). “Joseph Brodsky” troverà un altro Impero davanti a sé, e “Lesbia, Giulia, Cinzia, Livia, Michelina”, e la rinnovata luce della coscienza dell’esule Cvetaeva (e stimoli linguistici nuovi). Ma la misura della perdita (che “fa uguale a Dio il mortale”, come riconoscerà in una poesia-rapporto alla fine di quello stesso anno: 1972) è incolmabile.” (Dalla prefazione di Iosif Brodskij – Poesie, Adelphi Edizioni, a cura di Giovanni Buttafava).

C’è una fotografia che ritrae Iosif Brodskij durante la sua attività di docente alla University of Michigan, intorno agli anni Settanta. Il poeta russo, poi naturalizzato americano, in questa immagine appare sdraiato su un tavolo, tra fogli in disordine, un leggero sorriso sulle labbra, con un’aria di totale leggerezza.

Josef_Brodsky

È lo stesso Iosif Aleksandrovic Brodskij che nel 1972 lasciò l’Unione Sovietica per andare in Occidente, dove diventerà Joseph Brodsky.

Lo stesso che esordì giovanissimo in patria a 18 anni, apprezzato e sostenuto da Anna Achmatova.

Nella sua vita ci sono la guerra, la prigione, l’esilio, ci sono l’Oriente e l’Occidente, c’è la poesia russa e c’è la poesia anglosassone.

Ci sono nomi che cambiano: oltre al suo, quello della sua città natale che da Leningrado diventerà (anzi, tornerà a chiamarsi) San Pietroburgo.

C’è soprattutto, a suggello di una carriera straordinaria, il Premio Nobel per la Letteratura nel 1987.

Tutto questo (e non solo) è nella storia di Brodskij, persino quella foto e la leggerezza che trasmette; davvero fortunati quegli studenti con un insegnante di tale grandezza.

 

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Cinque poesie di Iosif Brodskij:

 

Serie d’osservazioni. Angolo caldo.

Lo sguardo lascia una scia sulle cose.

L’acqua si ripropone come vetro.

L’uomo è mostruoso più del proprio scheletro.

 

Una sera d’inverno col vino in nessun posto.

Una veranda assalita dai salici.

Appoggiandosi al gomito riposa il corpo

come morena fuori del ghiacciaio.

 

Fra un millennio un fossile bivalve estrarranno

da questa tenda, e rivelerà fra le nappe

l’impronta di due labbra che non hanno

nessuno a cui augurare “Buona notte”.

 

* * * * *

 

Il tacco lascia tracce, quindi è inverno.

Nei campi fra cose di legno intirizzendo,

le case dei passanti riconoscono se stesse.

Che dite a sera del futuro, se

il corpo, nel silenzio della notte,

sulla parete via dall’anima proietta,

mentre dormi, il ricordo delle tue calde – omissis – ,

come di sera l’ombra dalla sedia

sulla parete proietta la candela, e se,

sotto il cielo sul bosco steso come tovaglia,

sulla torre del silos, dove spazza l’ala

del corvo, con la neve non sai imbiancare l’aria.

 

* * * * *

 

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove

onde grigie di zinco vengono a due a due;

di qui tutte le rime, di qui la voce pallida

che fra queste si arriccia, come un capello umido;

se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia

dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio,

ma sbattere di tele, di persiane, di mani,

bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani.

In questi piatti paesi quello che difende

dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede

più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo:

l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco.

 

* * * * *

 

Quanto alle stelle, ci sono sempre. Quando

ne spunta una, un’altra ne verrà.

Solo così di là si guarda qua:

dopo le otto di sera, ammiccando.

Il cielo è meglio sgombro. Anche se

la conquista del cosmo è più opportuna

con le stelle. Ma proprio senza andarsene

da dove si è, in veranda, in poltrona.

Come disse un pilota di quegli aggeggi, al buio

nascondendo metà della faccia, non esiste la

vita, con ogni evidenza, in nessun luogo, e non puoi

fissar lo sguardo su nessuna stella.

 

* * * * *

 

I giorni disfano l’abitino che Tu hai tessuto.

Si stringe a vista d’occhio, sotto la mano. Il filo verde

dopo l’azzurro si fa grigio, bruno,

e perde ogni colore, e si intravede

qualcosa ormai, l’orlo della batista.

Nessun paesaggista la fine del viale

potrà dipingere. Si ritira presto

l’abito della promessa sposa, lavandolo,

e il corpo non diventa mai più bianco.

Si è seccato il formaggio o il fiato manca.

Ossia: l’uccello, se di profilo è un corvo, di cuore

è canarino. Ma la volpe, quando addenta

la gola, non distingue il sangue dal tenore.

 

(da Iosif Brodskij – Poesie (1972-1985), Adelphi Edizioni, a cura di Giovanni Buttafava)

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